Metsatöll – “Ulg” (2011)

Artist: Metsatöll
Title: Ulg
Label: Spinefarm Records
Year: 2011
Genre: Folk Metal
Country: Estonia

Tracklist:
1. Agu
2. Sõjasüda
3. Küü
4. Muhu Õud
5. Kivine Maa
6. Rabakannel
7. Isata
8. Kahjakaldad
9. Tormilind
10. Ulg
11. Eha

Se al concetto di tradizione viene spesso attribuito sommariamente un carattere di immobilismo e invariabilità, il modo in cui tutto l’apparato di credenze e cultura legato ad un popolo (sia esso definito per divisioni territoriali, governative, linguistiche o sociali) sopravvive nel corso dei secoli non è il semplice frutto di una meccanica trasmissione da una generazione all’altra; al contrario, questo viene filtrato e codificato da esigenze contingenti legate alle sue naturali trasformazioni, e passa dunque attraverso processi di selezione e reinterpretazione individuale.
In musica, come in ogni tipo di arte ma probabilmente in maniera ancora più cruciale e al contempo inafferrabile, l’influenza del passato -ovviamente quello più recente e dialogante direttamente, ma anche quello più remoto e risalente le radici lontane e sotterranee di ciò che si denomina solitamente folklore- ricopre un ruolo fondamentale come strumento, fonte di ispirazione, appiglio solido e stimolante quei recessi di memoria collettiva inconsciamente celati dentro ognuno di noi, dal quale ripartire verso lidi inesplorati e formule nuove. In alcuni casi, come nella diffusione del Folk Metal negli anni a cavallo fra la prima e la seconda decade del nuovo millennio, questo naturale processo di archeologia e studio del passato muta dall’essere strumento, consapevole o meno, al diventare obiettivo e fine stesso delle proprie mire produttive: la tradizione viene suonata e raccontata, si dipinge sulle copertine delle nuove uscite e si cuce più spesso ancora sull’immagine che gli stessi autori vogliono dare di sé. Il successo, ad immediati posteriori ben delimitato nel tempo, di un certo tipo di commistione intergenere può imputarsi anche ad un approccio nei confronti del folklore stesso che assume una certa similarità con il fascino per l’esotico e per un ignoto che spesso non viene fatto risalire a rimembranze ataviche, non viene individuato in una qualsivoglia linea temporale, bensì rimane aleggiante nell’aria con l’appeal del fantastico. Altri casi invece, come quello degli estoni Metsatöll (in cui messaggio, stile, portamento ed estetica a tutto tondo vengono per conseguenza ad un modo pregresso e spontaneo di vivere, sentire e percepire la propria terra di appartenenza come un qualcosa di fondamentale da esprimere), sono quelli in cui gli ingranaggi compositivi suonano naturali, genuini e svincolati da canoni tanto effimeri quanto castranti.

Il logo della band

Il periodo che intercorre fra il 2005 e quello dell’uscita di “Ulg” è forse il più prolifico e turbolento per lo sviluppo dei Metsatöll come band – sia per quanto riguarda la maturazione artistica, come per una graduale presa di coscienza della propria fama nazionale ed internazionale che stava andando in crescendo. Dopo avere infatti chiuso i conti con il passato donando una nuova e definitiva foggia a “Terast Mis Hangund Me Hinge” -che aveva nel lontano 1999 (o sarebbe forse meglio dire 10218?) rotto il silenzio dell’umida tundra estone- ed essere arrivati ad una definitiva e conclamata maturazione con il successivo “Iivakivi”, la popolarità crescente in patria (che porta ad una collaborazione con l’Eesti Rahvusmeeskoor, il coro maschile estone nazionale, confluita nel live album “Raua Needmine” del 2006) li conduce al grande salto con la firma per i cugini finlandesi della Spinefarm Records: l’uscita di “Äio e i tour blasonati in combutta, fra gli altri, con Finntroll dopo ed Ensiferum prima, segnano il definitivo affacciarsi su una frangia di Metal business particolarmente in auge in quegli anni da parte di una realtà tanto particolare (e tutt’altro che cosmopolita) come quella dei quattro estoni.
Proprio in questo scenario, all’apice della propria popolarità seppur mai esplosa definitivamente, prende vita “Ulg”: a neanche un anno da quel compendio di visioni sfumate e ancestrali che costituivano gli inni di “Äio”, la formazione si ritrova isolata tra le foreste di Hargla, con la sola compagnia dei tecnici del suono Mikko Karmila (Finnvox Studios di Helsinki) e Keijo Koppel (RoundSound) e con il dichiarato intento di voler sfruttare fino in fondo e con il piglio più spontaneo possibile un’ispirazione in quel momento sfolgorante, forgiando in itinere dei brani che fino a quel momento erano semplicemente bozze, idee e progetti. Un approccio così frontale ed immediato, radicalmente opposto alla composizione più complessa, studiata e cesellata del precedente capitolo, va a caratterizzare e ad esaltare peculiarità che mostrano l’altro volto di un sound, vicino sì temporalmente e di conseguenza stilisticamente, ma dalla visione complementare. Usciti dunque dalle cure dello spirito protettore della notte, sradicati una volta ancora dalla terra delle foschie e delle tenebre, i Metsatöll scendono dai loro destrieri d’ombra e si avviano lungo il turbolento fiume della vita. Come nel bellissimo e caratterizzante dipinto di Jüri Arrak in copertina, sarà difatti la dea Taara a condurli ad esplorare le vicende più che mai terrene della carestia, della guerra, della sofferenza e della conversione che un popolo tanto coriaceo come quello estone ha saputo affrontare nel corso dei secoli, nonché spingenrli a comporre un disco dei più sfaccettati, completi e oscuri della loro intera discografia.

La band

A dispetto di un timing totale sotto i tre quarti d’ora, che lo attesta come il più breve full-length mai composto dai Metsatöll fino a quel momento (e ancora oggi, nell’occasione del suo decennale in cui questo articolo viene scritto), “Ulg” è infatti una delle uscite in cui i contrasti di quel suono tipico che li caratterizza spiccano e risaltano di più: la scelta di un sound netto, pesante e granitico con cui caratterizzare tutte le corde elettrificate in formazione non fa che rendere ancora più solido e grave il basamento tellurico di frequenze basse garantito dalla tonante ugola di Markus Teeäär; su questa si inerpica ancora una volta la strumentazione acustica appannaggio del tuttofare e secondo cantante Lauri Õunapuu, in grado di scandire e tratteggiare gli umori e i variopinti colori della narrazione con un registro al contempo più diretto e più variegato del solito, muovendo le proprie dita e il proprio soffio verso melodie spesso orecchiabili ma incredibilmente evocative, caratterizzanti e in grado di donare un spessore e tridimensionalità ai brani.
Ai fumi del sonno del 2010 non possono del resto che seguire le rinfrancanti noti dell’alba di “Agu”, subito infrante dallo sferragliare di ritmiche spezzate inseguite dal basso roboante in cima al master e ai blast-beat di “Sõjasüda”, che subito palesa come l’impatto del disco possa essere frontale e massiccio, con una solidità che tuttavia non vada a trarre in inganno venendo interpretata come eccessiva semplicità: sebbene le asce non si abbandonino in tecnicismi affidando la costruzione melodica al comparto corale e alla strumentistica acustica, il chitarrismo di matrice Thrash ed Heavy Metal va ad incastrarsi via via con perizia nella composizione e a strutturarsi con cura e un gusto al limite del Progressive. Dalla storia di un uomo nato con lo spirito del lupo, il cui tormentato destino è quello di sporcarsi di sangue e violenza piuttosto che perseguire l’annuale mietitura del raccolto, fino a “Küü”, fiero inno di devozione al serpente protettore del focolare e del nucleo familiare scandito da risonanti giri di torupill.
Il regilaul ritmico e cadenzato delle vocals conduce pertanto attraverso quelle che sono le credenze e i racconti che permeano la prima metà di disco, con narrazioni che percorrono quel limbo incerto fra il leggendario ed il verosimile, in cui il registro si destreggia fra toni più distesi e bieche pieghe minacciose e grottesche; come nella descrizione dei mitici abitanti dell’Isola di Muhu, pronti a scendere a patti con niente meno che gli spiriti maligni per conservare la loro indipendenza, dipanantesi in “Muhu Õud”. Lo scacciapensieri di “Kivine Maa”, a metà 2011 singolo di lancio dell’uscita, si infrange sulla barriera inscalfibile di chitarre ed è l’ultimo spiraglio prima dell’accoppiata formata dall’angosciante e spettrale “Rabakannel” e dalla straniante “Isata”, snodo centrale del disco permeato di dolore e sofferenza: i riflessi iridescenti, cristallini e vergati di blu dell’acqua si intorbidiscono e sfumano improvvisamente nel verde palustre di un ambiente tanto sacro e millenario quanto costellato di tentazione e putrescenza; il gracchiare esasperante dello zither richiama insieme al fluttuante Eksitaja le anime dei morti, introducendo una seconda parte di album solcata amaramente dalla battaglia e dall’affanno.
I ricordi di carneficine e sacrifici rituali officiati sulle sponde del Baltico riaffiorano infine nell’aspra “Kahjakaldad”, unita a filo diretto con la title-track “Ulg” per dei testi che vanno a richiamare le vicende infiammate della Crociata di Livonia, in cui il già cristianizzato Regno di Danimarca piega -dopo estenuanti assedi e violente incursioni- le contee estoni costringendole ad una conversione tarda, forzata ed illegittima. Dopo il malinconico e breve episodio di “Tormilind” segue infatti la title-track, reale culmine di tensione nonché vero e proprio gioiello della release, che con la durata di stacco maggiore dell’intero platter va a posizionarsi quale coronamento di tutte potenzialità espressive della formazione.

“Ulg” non arriva dunque solo temporalmente all’apice di un periodo aureo dei Metsatöll, ma ne è indiscutibilmente uno dei punti più alti, andante a formare con il gemello sinistro “Äio” un dittico magistrale che si configura come primo manifesto artistico di una formazione dall’animo ribelle e mai domo, sempre legata a doppio filo alle sorti e alla tradizione storica, musicale e culturale del paese di origine; e tuttavia qui espressasi con sfumature sorprendentemente chiaroscurali e con un grado di emotività e completezza pari forse solo a ciò che partoriranno nel 2019 in  “Katk Kutsariks”. Con coordinate distintive e uniche, nonché uno spirito così indipendente e dal piglio anarchico, la sensazione che si percepisce ripercorrendo la discografia dei quattro lupi e in particolare di uscite come il proprio quinto full-length è che il loro modo di fare Folk Metal si erga quasi indipendentemente da qualsivoglia tipo di ondata o influenza a loro contemporanea, motivo per cui nel descriverlo i riferimenti sfuggono e ogni tentativo di paragone andrebbe a calzare incredibilmente stretto a quella parabola stilistica che, non per caso, anche negli anni successivi andrà sì ad evolvere e modificarsi in piccoli perfezionamenti, cambi di stile e sperimentazioni, ma ripartendo sempre da ciò che di pregevole era stato fatto in precedenza, mantenendo di fondo immutata quell’aura di atemporale incorruttibilità.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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